- Cambiamento Climatico
I cambiamenti climatici e le api
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Come si gestisce un bosco?
Partiamo dalle basi: Il bosco produce ossigeno e immobilizza la CO2. O meglio le piante, attraverso la fotosintesi, trasformano la CO2 in carbonio organico, che a sua volta si trasforma sostanze nutritive, sostanzialmente zuccheri.
Con questa sostanze i vegetali costruiscono le foglie, il tronco e le radici: assorbono quindi CO2 dall’atmosfera, la trasformano e la utilizzano e poi liberano ossigeno, O.
In un albero è proprio la dimensione che fa la differenza nella sua capacità di assorbimento della CO2.
Il metodo statistico più attendibile e consolidato per valutare la capacità di un bosco di assorbire anidride carbonica è la misurazione della quantità di legno che è presente nell’area: in base alle tonnellate di legno presenti si può quantificare la CO2 e quindi i crediti di carbonio che possono essere poi collocati per compensare le emissioni generate dalle attività umane.
Il carbonio è presente anche nelle foglie e nelle radici, ma è molto più difficile da misurare, basti pensare, ad esempio, che le foglie cadono e si decompongono.
Ovviamente quanto più gli alberi sono grandi, con dei tronchi con ampie circonferenze, tanto maggiore sarà la capacità di assorbire la CO2. Attraverso la misurazione dei tronchi si misura il grado di assorbimento di CO2 di un bosco e la
capacità di compensazione attraverso i crediti di carbonio.
Questo porta a fare molte valutazioni su come si gestisce un bosco e quali sono i comportamenti virtuosi per conservare la biomassa.
La prima conseguenza è che un bosco per mantenere alti i livelli di assorbimento di CO2 non dovrebbe essere tagliato.
La gestione del bosco, in questo caso, deve essere completamente diversa da quella realizzata con una visione fortemente antropocentrica, in cui il bosco è al servizio degli umani. In realtà siamo noi umani che abbiamo bisogno del bosco, del suo legname, e quindi tendiamo a gestirlo con tagli e successivi rimboschimenti.
Oggi il bosco ha maggior valore per le sue capacità di difesa dell’ambiente e della biodiversità, che nella sua funzione produttiva.
Il bosco lasciato libero di svilupparsi cresce naturalmente e ha un ciclo di circa 200 anni. Le piante giovani, latifoglie, hanno bisogno di almeno 20/30 anni per iniziare ad avere un impatto sull’assorbimento della CO2.
In sintesi: per sviluppare e mantenere la biomassa bisogna rinviare il taglio e quest’ultimo va gestito in una percentuale congrua con il bosco esistente.
In altri paesi hanno un sistema di pianificazione del taglio dei boschi che considera varie tipologie
di taglio e turni. Nelle Alpi i boschi di conifere hanno turni di 100 anni.
Con queste tempistiche, ovviamente, si rinuncia a una parte del reddito che potrebbe dare la foresta, ma si mantiene la capacità di immagazzinare CO2.
In Italia questo principio non è condiviso da tutti gli esperti e gli operatori del settore.
L’industria del legno, ovviamente, spinge verso i tagli, e spesso il prelievo di legname, già molto elevato, sfugge alle statistiche.
Le direttive governative incentivano l’uso della legna come combustibile, in quanto fonte rinnovabile. L’Italia è il primo produttore di pallet e stufe a legna.
Ma anche la combustione della legna emette CO2.
Forse solo in una condizione preindustriale ci sarebbe un equilibrio: tanta CO2 si immette e tanta la biomassa ne assorbe, ma attualmente abbiamo una concentrazione troppa alta di CO2 in atmosfera.
Nell’attuale situazione non abbiamo molto tempo per agire, 30 o 50 anni al massimo, e l’uso di legna da ardere non migliora la situazione. Bisogna pensare a fonti di energie rinnovabili senza emissioni.
La questione su come si gestisce un bosco, ovviamente, è mondiale.
In Italia molti scienziati e ricercatori spingono verso una produzione nazionale controllata e pianificata, come avviane già ora in alcune zone delle Alpi, che è certamente migliore rispetto a quella fatta in paesi come la Russia dove i tagli sono abusivi e indiscriminati. Ma di fondo la soluzione migliore è non tagliare.
È vero anche che la superficie boschiva in Italia è aumentata, ma sono boschi “poveri”, in neoformazione, con poca biomassa.
A volte sono solo cespuglieti con bassi valori di biodiversità.
Certamente è un dato positivo, ma quelle che vanno difese sono le foreste che hanno raggiunto una maturità. Ce ne sono molte nel centro e sud Italia e subiscono pressioni di chi vorrebbe tagliare queste piante mature.
Da qui a pensare agli incendi potrebbe essere naturale. In effetti la gran maggioranza degli incendi è doloso ed avviene per ragioni socioeconomiche. Solo una piccola parte ha origini naturali, come i fulmini.
In alcune zone della Sardegna gli incendi avvengono per acquisire terreni per la pastorizia o per le speculazioni edilizie. Ma il fenomeno si presenta ance in altre regioni.
Un’altra causa è che esiste una sorta di “economia dell’incendio”.
Infatti, gli incendi sono spenti da associazioni e aziende private, ad esempio come quelle che possiedono i canadair utilizzati per spegnere le fiamme.
Ci sono anche molti stagionali assunti per controllare e spegnere il fuoco, e il detto è un po’ “chi spegne, accende”, perché è l’incendio stesso che garantisce il lavoro e una fonte di reddito.
La soluzione sarebbe affidare questa attività a chi non ne ricava nessun vantaggio economico.
Anche in questo caso non si ha una sufficiente coscienza che il bosco come è elemento primario per la nostra vita sul pianeta.
Mentre i boschi sono ad oggi l’unico strumento utile per ridurre la CO2.
Dovremmo cambiare le priorità e fare una gestione del patrimonio boschivo quasi totalmente finalizzata alla mitigazione dell’emergenza climatica, che vuol dire ridurre la CO2 e allo stesso tempo salvaguardare la biodiversità che il bosco nutre e protegge.
Per fare questo dobbiamo sostenere intere aree boschive e ritardare i tagli.
Ovviamente bisognerebbe in qualche modo remunerare chi non avrebbe più un reddito dal taglio della legna.
Ma se si pensa che in Italia l’agricoltura vive soprattutto di sussidi, si dovrebbe ragionare anche in questi termini con la silvicoltura.
In questa fase in cui si parla di transizione ecologica varrebbe la pena di fare anche queste considerazioni, e in tutta l’Unione Europea destinare risorse pubbliche per mantenere i boschi.
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