Phersu
Una strage. Questo aveva visto rientrando dalla caccia. La madre e il padre uccisi, i servi trucidati. Si gettò sui corpi dei genitori, li strinse al petto piangendo. Poco più in là la sorella Anthaia, anch’essa uccisa.
Mamerzio era un giovane sveglio e capace, amava la famiglia e quello che rappresentava per la sua comunità. Erano Tirreni (Etruschi per i romani). Aveva le sue idee e ultimamente si era trovato in contrasto con il padre Arunte sulla gestione delle loro proprietà, ma nulla di più.
Al massacro, in cui erano morti anche gli schiavi che erano in casa, erano sopravvissuti solo un vecchio servo che era andato a prendere l’acqua e il cane, anche se gravemente ferito. Nessun altro.

Mamerzio, frastornato e distrutto dal dolore, ebbe la forza di prendere il cane e correre da un suo amico per tentare di salvarlo. Era una cagna che stava in casa da tanto tempo ed era cresciuta con lui.
La notizia della carneficina si diffuse in un battibaleno. Fu raggiunto da una folla affranta e incredula. Arunte era uno dei capi, un nobile stimato. Una perdita così era inspiegabile.
Furono approntati i riti funerari, che comprendevano anche duelli con la spada, uomo contro uomo fino alla morte di uno dei due, la cui anima avrebbe così accompagnato i defunti nell’aldilà.

Il sacrificio umano dei servi della famiglia, prerogativa di un lignaggio di alto rango, era antichissimo e diffuso anche in altre civiltà. Furono il prodromo dei duelli gladiatori romani, dapprima cruenti, poi sempre più ritualizzati.
I principi si riunirono per cercare di capire. Mamerzio raccontò quello che gli aveva riferito il vecchio servo: aveva visto tre uomini fuggire con degli oggetti in mano. Probabilmente un furto, forse gli ori della madre Thesathei.
Si fece largo l’accusa. Dapprima solo qualcuno, poi in molti puntarono l’indice sull’unico in vita della famiglia: Mamerzio. La motivazione? I suoi attriti con il padre. Mamerzio ovviamente si proclamò innocente, ma non c’erano testimoni. Il cane non poteva parlare e il servo non fu preso neanche in considerazione, troppo vecchio, troppo deboli i suoi occhi, troppo legato al suo giovane padrone.

I saggi proclamarono il phersu*. Mamerzio fu tramortito dalla notizia. Arrivò il giorno. Il sacerdote lo condusse nell’arena. C’erano tutti. L’ordalia si doveva compiere e gli dei avrebbero sentenziato.
Se Mamerzio fosse sopravvissuto avrebbe significato che era innocente. Se fosse stato ucciso dalla belva con cui doveva lottare, significava che giustizia sarebbe stata fatta.
Un cappuccio sulla testa e il braccio sinistro legato dietro la schiena. Il sacerdote era amico del padre e gli aveva concesso questo piccolo privilegio: gli aveva lasciato libero il braccio destro invece del contrario. Il sacerdote aveva una clava e due guinzagli nell’altra mano: uno per la belva e uno per Mamerzio. Passò la clava al giovane, sciolse i guinzagli e diede il segnale. Il combattimento poteva cominciare.

Mamerzio non vedeva niente, sentiva le grida della folla e il ringhio della belva. Istintivamente
cercò di alzare il cappuccio, ma era legato sotto la gola. Riuscì solo a percepire qualche tratto del molosso che aveva davanti. Riconobbe il disegno del pelo sopra la testa, due macchie nere come quelle di un cucciolo della vecchia cagna di famiglia. Forse era proprio lui, non ebbe il tempo di pensare altro. Sentì il calore della bestia su di sé. Barcollò, ma riuscì a rimanere in piedi. Con la clava fendeva l’aria senza riuscire a difendersi. Il cane attaccava, lo morse a un polpaccio.

Mamerzio riuscì a divincolarsi, senti il dolciastro del sangue. Mentre era a terra percepì un’ombra e sferrò un colpo. Casualmente abbatté il cane, cosa assai rara nell’arena. Era stato fortunato, ma quando lo vide gli dispiacque per l’animale. Quasi sicuramente era lo stesso che aveva tenuto in braccio quando era cucciolo, ma ora la sua bocca faceva paura.
I saggi presero atto con sollievo che il colpevole non era lui.

Il giovane rincontrò il vecchio servitore, un po’ malandato e avanti negli anni. L’età e la familiarità che aveva con il ragazzo gli consentirono una grande franchezza: “Gli uomini si appoggiano agli dei per fare ciò che vogliono”, gli disse. “Le loro credenze sono i loro alibi. Ma è sempre e solo l’uomo, nel senso dell’intera umanità, che fa il suo destino, segna il tracciato delle nostre vite e decide se e come possiamo convivere con la natura di cui siamo parte.”
Mamerzio capì quanto può essere nefasto il comportamento degli uomini verso sé stessi e divenne un’altra persona, molto più attenta e riflessiva.

 

* Il phersu compare in alcune tombe etrusche di Tarquinia. Era un’ordalia in cui si compiva il
giudizio divino attraverso dei rituali cruenti, che avevano a che fare con giochi funebri e prove
sportive. La parola persona deriva da phersu, maschera in etrusco.