Il leggendario duello degli Orazi e Curiazi

“I nostri giovani più gagliardi sconfiggeranno Alba Longa…”

L’atmosfera era solenne, la voce dell’aruspice grave, le persone assiepate intorno a maggiorenti e capitribù. Tullio Ostilio, re di Roma, osservava ieratico.

“Questo deve essere proprio scemo – pensava Elio il più giovane dei tre fratelli Orazi (gli altri due erano Orazio e Marco) che dovevano combattere per Roma contro i Curiazi di Alba –, ma che dice? Uno: noi non siamo fratelli; due: a me ‘sta storia di un combattimento all’ultimo sangue non mi piace proprio; e tre: i Curiazi sono forti, più forti di noi! Lasciamo perdere e andiamocene a pascolare le pecore…”

È sì, i romani erano pastori che avevano costruito delle capanne intorno al guado del Tevere, l’isola Tiberina. Erano cresciuti in numero e organizzazione e il loro re ora voleva espandersi a sud, nei territori vicini.

E mentre l’augure scrutava il volo degli uccelli e da questo desumeva il prossimo destino di Roma, Marco, l’altro “cugino” dei tre Orazi, riprendeva il sarcasmo di Elio: “ma quali uccelli, ma che combattimento, ma quale duello!”

Caio, il padre (e lo zio) degli Orazi, aveva deciso per loro e aveva rassicurato il re. I gemelli (“ma se siamo a malapena cugini”, bofonchiava Elio) avrebbero sfidato altri tre fratelli di Alba, i Curiazi (Curiazio, Nevio e Vito). I vincitori avrebbero prevalso senza ulteriori guerre, risparmiando un bagno di sangue a quelli che poi si sarebbero dovuti unire: Roma e Albalonga alleati insieme. Questo era il patto, suggellato sulle parole di un vaticinio che i due re, di Roma e Alba, avevano “ordinato” al sacerdote. Sacerdote che aveva interpretato le parole del dio, che nessuno dei presenti aveva capito, tale era il crepitio del fuoco e indistinta la sua figura, tra il fumo acre dei falò.

Caio aveva avuto il suo bel da fare per convincere i figli e i nipoti Orazi. “Diremo che siete gemelli, dà un maggiore vincolo e lustro alla nostra gente”. Ma a ben guardare avevano età diverse e non si assomigliavano per niente. Il padre/zio si concentrò soprattutto su Orazio, il più autorevole dei cugini, per convincere gli altri due. Orazio, che di nome (praenomen) veramente faceva Nero, quando era piccolo era stato adottato da Caio, che gli diede il nome della sua gens, gli Orazi, appunto. Caio convinse Orazio a combattere perché gli promise in sposa Marzia, la figlia del re, che ovviamente era d’accordo perché trovava vantaggioso per sé il matrimonio combinato della figlia.

Per dare un’aura di sacralità alla disfida, Caio ripeteva a tutti che gli Orazi erano tre gemelli. Non era vero niente e molti lo sapevano. Orazio convinse gli altri due sfidanti, promettendo loro gloria e potere, ma soprattutto ricchezza, pecunia, ossia molte pecore.

Fissato il giorno del combattimento al sorgere della luna nuova, Mezio, il re di Alba, per i latini non poteva mettere in campo niente di meno dei romani, e così ecco contrapposti miracolosamente tre fratelli pure da parte loro. Ci fu da ridire pure sul luogo e l’ora: i Curiazi volevano combattere vicino ad Alba e quando i romani cedettero, in cambio dell’assicurazione che il drappello che accompagnava i Curiazi sarebbe stato ridotto e non armato, discussero sull’ora, perché arrivare all’alba alle falde di Alba significava partire da Roma e cavalcare per una notte prima del duello.

“Questi bastardi ci vogliono sfinire prima di combattere – si lamentava Elio – ma non possiamo vederci a mezzogiorno?” Caio, il padre degli Orazi, era stupefatto dalla tracotanza e dall’indolenza del giovane: “i combattimenti si fanno all’alba, si sono sempre fatti all’alba!”. “Sì, ma perché, qual è la ragione?” – controbatteva il giovane. “Perché hai tutta la giornata davanti per combattere; eppoi è quello che ci ordinano gli dei”.

“Ma quali dei? Quali ordini? Qui vedo solo il tuo interesse e quello del re, altro che sacralità e supremazia della nostra gente. Perché non ce ne possiamo stare tranquilli dove stiamo e vivere in pace?”. Parole perse nel vento, nessuna risposta.

Il giorno del duello i romani si presentano coperti di pelli e con scudi di legno, asce e una corta spada, il gladio (affine alla daga), specifica per il combattimento a corpo a corpo. I Curiazi sono più armati, aggressivi, preparati. Hanno anche un copricapo protettivo e tutta una serie di ornamenti che servono per farli apparire più alti e grossi di quello che sono, per incutere timore.

Un cerchio e il combattimento ha inizio. Anche sacerdoti, re e guerrieri dei due schieramenti fanno da spettatori. L’impegno è di non intervenire e di rispettare l’esito del duello. Alla fine il perdente si alleerà in posizione subalterna con il vincitore. Il patto è stato sugellato con cerimonie comuni nei giorni precedenti.

Cominciano a combattere. Le urla di incitamento producono un frastuono non sempre decifrabile. I re dei due schieramenti osservano, i sacerdoti sorvolano sulle imprecazioni contro gli dei lanciate dai duellanti. Sangue, furore, polvere. Il sole è appena sorto e già fa caldo. L’ascia nella mano sinistra e la daga in quella destra. I colpi sono micidiali, le lame fanno scintille, i corpi soffrono, il sudore si mischia alla polvere e al sangue delle ferite.

Intorno ci sono anche delle giovani che non hanno rispettato il divieto di essere presenti. Orazio vede Marzia, la sua promessa, vede il re, che lo ha lusingato con il potere, coglie lo sguardo del padre, che gli ha garantito ricchezze… Si ricarica, incita i fratelli/cugini. Il combattimento è fatto di brevi e intensi scambi, poi ci si riposiziona e si ricomincia.

La stanchezza rende tutto più difficile. A un certo punto, uno dietro l’altro, due dei romani si trovano soccombenti a terra, morti in una pozza di sangue. Contro i tre Curiazi rimane solo Orazio. Uno contro tre non può. Fugge, corre come il vento, si nasconde. Gli spettatori del duello non lo vedono più, è scappato in direzione di Roma, si è infilato nella macchia poco lontana.

I Curiazi, pur feriti, lo rincorrono, lo insultano in una lingua non troppo familiare. Lo vogliono umiliare, gli promettono una brutta morte se non esce fuori. Niente da fare!

“Bastardo di un romano, esci se hai coraggio, fatti vedere, combatti da uomo!” Curiazio, il più esperto dei tre Curiazi sente la vittoria a portata di mano e fa segno ai fratelli di circondarlo. Orazio se li vede arrivare quasi addosso, è mimetizzato nel sottobosco e quando lo ha a tiro ferisce a una gamba il Curiazio Nevio. Si gira e lo uccide silenziosamente con un colpo alla giugulare.

Poco dopo fa la stessa cosa con Vito, il secondo Curiazio. Questa volta però c’è un combattimento. Orazio vince, ma il clangore delle spade non sfugge a Curiazio, il terzo e più forte dei tre fratelli latini. Orazio se lo trova davanti e questa volta si fronteggiano. Combattendo escono allo scoperto nella radura. Nel frattempo è sopraggiunto qualcuno degli spettatori del duello iniziale. Orazio è forte, Curiazio anche di più, ma è ferito. Non risparmiano i colpi. La folla li incita, anche se i rispettivi re sono lontani. Il corpo a corpo è drammatico, le forze non sono infinite, Curiazio perde molto sangue, dopo tanto, all’ennesimo attacco, soccombe. Orazio prevale e Roma vince!

Orazio viene condotto come trionfatore nella pianura dove sono rimasti sacerdoti e re. Li vede che parlano tra loro. Sembrano toni amichevoli. Orazio si avvicina e getta la spada, significa che – come d’accordo – non ci saranno più combattimenti e romani e latini diventeranno alleati.

Guarda gli ottimati tutti intorno, intercetta gli occhi del padre e un dubbio terribile lo assale. Poi scruta i due re, che si trattano con una familiarità fuori luogo e ha la certezza: il duello era servito per il popolo, i due re erano già d’accordo su come creare una leggenda, spartirsi il potere e diventare alleati contro altri nemici!

Il leggendario combattimento degli Orazi e Curiazi tra Roma e Albalonga è fissato al VII secolo a.C., in realtà la definitiva annessione dei Latini da parte dei Romani risale al 495 a.C. e la guerra fu molto cruenta.