La nostra riflessione sui carbon credits

Il 20 agosto è uscito su Il Fatto Quotidiano un articolo di Renzo Rosso, docente di Costruzioni idrauliche e marittime e Idrologia a Milano, dal titolo “Carbon credit, dare un prezzo alle emissioni ha fatto più male che bene”, nel quale si criticano, fra l’altro, i crediti di carbonio e la loro compravendita.

La lettura dell’articolo è stata lo spunto per una riflessione di Phoresta che condividiamo con le nostre lettrici e lettori.

Dare un prezzo alle emissioni non è finanza, come sostiene il professor Rosso, e non è neanche finanza creativa, è uno degli strumenti che le istituzioni internazionali e gli Stati hanno iniziato ad usare per affrontare la crisi climatica, da circa tre decenni.

Il protocollo di Kyoto del 1997, infatti, non era vincolante, né obbligatorio per nessuno Stato, non c’era nessuna diplomazia climatica capace di rendere obbligatorie delle azioni per affrontare un problema planetario. Parliamo di appena 27 anni fa.

Contrariamente a quanto sostiene Rosso, l’Ipcc è un panel di scienziati del clima ed economisti che afferiscono a differenti e diverse discipline e arrivando da tutti i continenti dando il loro contributo per capire come funzionano a livello planetario le questioni climatiche e suggerire possibili soluzioni.

E tutti lavorano gratuitamente da sempre.

Col Protocollo di Kyoto si è messo in moto un lavoro tra Stati sulle questioni climatiche, mentre per la biodiversità e gli ecosistemi sono nate le Cop, ma anche in questo caso ogni Stato decide se e quando e come affrontare le questioni che la scienza pone.

Rimane il problema che tutte le economie sono “fossil fuel” e trovare la maniera o le strade per “connettere” le economie monetarie che funzionano a fossil fuel con le questioni climatiche – dalla riduzione della biodiversità a livello planetario al mantenimento del funzionamento di tutti gli ecosistemi – è al tempo stesso la sfida vera e la questione cruciale per ogni stato, per la cittadinanza, per le imprese e la società civile per i prossimi decenni.

Contributi fondamentali per capire “il che fare” li troviamo nel Dasgupta Report dove molti economisti hanno provato a connettere le questioni relative alle economie monetarie con la biodiversità e gli ecosistemi, nei lavori e studi di TEEB, nei report dell’IPBES e persino nei principi per le statistiche nazionali SEEA EA dell’UN Statistical Commission: tutti sostengono che gli Stati dovranno considerare che anche i servizi ecosistemici hanno un valore monetario, quindi misurabile, per cui dovrebbero essere inseriti come uno dei “produttori” o contributori dei PIL nazionali.

È questo uno dei motivi per cui si parla di crediti di carbonio e di emissioni di CO2 equivalenti. Chi emette CO2 ha un debito, chi riduce le emissioni o assorbe CO2 ha un credito.

I crediti di carbonio sono uno dei meccanismi “inventati” circa trenta anni fa per iniziare a mitigare l’effetto delle emissioni di CO2 equivalente, ossia il global warming.

Mitigare non significa ridurre le emissioni o non emetterle ma iniziare a “tamponare”: coi crediti di carbonio l’emettitore paga perchè qualcuno assorba la CO2 che ha emesso.

E chi assorbe la CO2 sono gli alberi insieme agli oceani, non esiste altra tecnologia che lo faccia. Mitigare le emissioni con uso dei crediti di carbonio forestali serve a non far aumentare la concentrazione dei gas serra, che continuano perchè tutte le economie funzionano coi fossil fuel. I crediti di carbonio generati dalla nuova forestazione non sono un prodotto finanziario ma uno dei modi per fare mitigazione “in attesa” che gli stati mettano in moto la decarbonizzazione e in “attesa” che questa si realizzi del tutto.

Le emissioni di Co2 equivalente non sono aumentate perchè esistono e vengono usati i crediti di carbonio, come sostiene Rosso, ma perchè dalla rivoluzione industriale in poi tutte le economie usano fossil fuel, perchè le decisioni prese nelle varie Cop sul clima non sono state applicate da tutti gli Stati: solo alcuni hanno iniziato realmente a decarbonizzare le loro economie.

La decarbonizzazione è un processo economico, finanziario, monetario, sociale, tecnologico, lungo, costoso, difficile: è molto complicato cambiare il modo di produzione.

È chiaro che non sono i soli crediti di carbonio, o i soli incentivi statali, o le sole buone azioni individuali, o i il carbon trading o la economia circolare a innescare e mantenere la decarbonizzazione. È una questione planetaria e globale, al netto della maggioranza di Stati che non ha generato, fino ad ora, una unica politica climatica.

Rosso ritiene anche che la CO2 sia un “rifiuto senza valore”, una affermazione erronea perché la CO2 non è un rifiuto ma un gas clima alterante e ha un valore economico, certamente negativo se si pensa che toglierla dall’atmosfera ha costi altissimi, così come decarbonizzare le economie per ridurre e/o contenere il global warming, ma ne ha altrettanti in termini di salute umana e ambientale, ridurne l’impatto avrebbe anche un ritorno economico.

Infine, per concludere e rispondere all’ultima affermazione di Rosso: dire che i crediti di carbonio hanno peggiorato le emissioni è come dire che le cinture di sicurezza non servono perché non hanno ridotto gli incidenti stradali. Siamo davvero sicuri che sia possibile dire così?